giovedì 14 luglio 2016

Cosa significa, oggi, vivere?



Certo, domanda banale direte voi: vivere è… vivere. Fare le cose, pensare, amare, provare emozioni e sentimenti, comunicare, lavorare, magari mettere su famiglia, avere cura di sé, divertirsi, realizzare cose, avere amici, sviluppare progetti, avere hobby e forse potersi dedicare ad una qualche forma d’arte, educare i propri figli, essere buoni cittadini, invecchiare sereni, godersi la pensione… Questo è vivere, Anzi, potremmo dire che questo sia da considerarsi già “vivere bene”. “Stare bene”. Oggigiorno lo studio, la cultura, la scoperta, l’arte sono cose ritenute già piuttosto specifiche: attività normali o necessarie in certi periodi della vita o per certe persone “portate” o che “possono permetterselo”. Ma che poi, nella nostra società funzionale, decadono all’insegna del fare, del produrre, del guadagnare, insomma di altre necessità ritenute impellenti e prioritarie. Come del resto i rapporti di amicizia: alla fine restano sempre più un residuo, non di rado sulla base ancora una volta di criteri di necessità e opportunità. Certo, c’è la famiglia: quella di origine e quella attuale, con tutti gli annessi e connessi. Questo è vivere, potremmo evidentemente concludere.  Questa è la vita. Più o meno, nella media oggi, in un paese “civile” e “moderno”. Cos’altro manca? Ah sì… quella cosa di cui a volte sentiamo parlare, che ha a che fare un po’ con la storia, un po’ con la cultura, un po’ con l’arte, un po’ con il costume e la società, con la morale, l’etica, l’essere buoni o meno, con il comportarsi bene con gli altri e con l’ambiente. Con l’essere “brave persone”. È la religione, direte voi. Sì, diciamo… la “spiritualità”. Che tra l’altro oggi viene fusa e confusa con tante altre cose, spesso per infiocchettare prodotti, servizi e beni di consumo, per motivare a certe scelte politiche o economiche, se non addirittura per giustificare guerre e contrapposizioni tra gli uomini. È stata perfino fusa con l’arrivismo: oggi strumenti di crescita personale, motivazione, autostima e tecniche per il successo vengono meglio vendute se profumate d’incenso. 

Ma, la religione non è spiritualità. E la spiritualità non è, o non è solo, cultura, arte, salute. Certamente non ha a che fare con tutto quel mercato di espedienti per la realizzazione personale, la felicità e la carriera. È certamente altro.  Non è religione perché non è dogma, né istituzione. Non è cultura perché non è “sapere”. Non è psicologia, non è terapia, non è un “bene di consumo”: perché la spiritualità, sembrerebbe, non serve a niente e a nessuno. Non è mezzo per la sopravvivenza né per il progresso. Né per la felicità di qualcuno o di tutti. Forse, potremmo provare a dire, facendo già un bel salto di qualità, che sia un fine, anzi il fine. Ciò che motiva profondamente, da cui tutto origina e in cui tutto si risolve, e che tutto attraversa, dando senso, conforto e prospettiva. Eppure, la spiritualità non ha un fine. E, soprattutto, non è utile.  Non è funzionale. È decisamente un “di più”, anzi un “di meno”. Cos’è la spiritualità? Difficile a dirsi oggi, vero? In una società come la nostra, tutta intenta a produrre, consumare, crescere. E noi tutti intenti a stare bene, intenti al successo, alla felicità. Al “benessere”. Ad acquisire certezze, metodi, soluzioni. Ma, cos’è la “spiritualità”? Cos’è “spirituale”? Cos’è la “ricerca spirituale”? È facile dire cosa non è: quello lo stiamo capendo, se siamo attenti. Lo stiamo imparando, spesso a nostre spese. Sappiamo, anzi sentiamo cosa non è la spiritualità. Se siamo sinceri con noi stessi. Intuiamo cosa non può essere. Progetti, eco villaggi, monumentali templi, grandi teorie sul cosmo e l’essere... E ogni volta che pensiamo di averla imbrigliata, ecco che la definizione, lo slogan, la frasetta… non ci piace mai: al massimo abbiamo trovato un altro modo di infiocchettare qualcos’altro. Dobbiamo ammetterlo. E non è neanche sviluppare le facoltà interiori o consuetudini nobili: essere vegani o capaci di esplorazioni astrali non è spiritualità. O forse lo è… ma non è quello il punto. È mistica? Ecco, può darsi che ci stiamo avvicinando.  

Mistica: parola evocativa, da liberare ovviamente dalle pesantezze religiose. Cos’è la spiritualità? Cos’è la spiritualità? Quale ricerca? Quale esperienza? Quale anelito? La filosofia dà significato alle cose, ma la spiritualità vuole l’assoluto. È fame di assoluto! Ma cosa pretendo dire oggi: in questa società del prodotto… del “benessere”… della lamentazione. E io che pretendo di fare spiritualità? Non ne so niente.  Sono colto. Ho studiato. Ho sperimentato stati altri di coscienza. Medito. Insegno a meditare. Insegno perfino a stimolare talune facoltà particolari. Ma no… No. Ancora mi arrovello. Non tanto perché non sento questo straordinario mistero, ma perché mi chiedo come sia possibile tornare a capirsi su qualcosa oggi di così tanto trascurato. Inutile. Inutile? Eppure la spiritualità è il fondamento della vita. Cos’è la vita se non è spirituale? Umile e amorevole scoperta, meraviglia, tentativo, comprensione, compassione? 

Tutto vano (e vanesio) se sfugge il profondo, inspiegabile e commovente anelito di assoluto. No… ma che Dio? Che conoscenza? Che potere? Che coscienza? No… È risveglio. Davvero è il risveglio ad un’alba meravigliosa. È fioritura, quesito inevitabile quanto insondabile, se siamo vivi. È follia. Pura follia. Pura poesia. Silenzio, dunque. Silenzio. Respiro. Né questo, né quello. 


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