martedì 13 dicembre 2016

La vera Tradizione. Il vero Maestro. La vera Scuola Spirituale. L’inutile sforzo della “legittimità spirituale”.



Con questa mia riflessione non difenderò la new-age e men che meno giustificherò gli improvvisatori dello spirito e i mercanti di salvezza. Così come non negherò il valore della Tradizione. Tuttavia, d’altra parte, intendo suggerire una maggiore serenità e, forse, un bagno di umiltà a tutti coloro che si sentono in dovere o nella necessità di ritenersi - oppure che si ritengono (esibendosi e non di rado millantando) - gli allievi o i rappresentanti legittimi di una “vera scuola” e di un “vero guru”. Essi sono i veri allievi, i veri iniziati, quelli che possono parlare, dire di essere in un vero cammino spirituale, che possono o che potranno insegnarlo e che pretendono pure, in virtù di questa legittimità, di avere l’autorità di “sbugiardare” altri che non lo sarebbero o che, a loro volta, pretenderebbero di esserlo ma che sono di un'altra parrocchia, magari rivale, e quindi non sono “quelli veri” o sono quelli “meno veri”. Loro hanno visto e possono vedere la luce: gli altri no. Loro possono mostrarla: gli altri no.

Ragioniamo. Se vogliamo stabilire se una via spirituale, o anche solo un’affermazione di carattere spirituale, sia o meno vera e autorevole, ovviamente conservando un minimo di criterio di discernimento basato su verificabili e verificati indizi di onestà, impegno e competenza, dobbiamo riconoscere che lo sono tutte o non lo è nessuna.

Dico questo prima di tutto perché credo che l’affidabilità, ovvero la verità di un percorso, la conferisca per sé la persona che lo sta percorrendo, la quale essa persona dovrà essere preoccuparsi di essere autentica: in quel modo renderà autentico il percorso che sta vivendo con devozione e impegno. Quindi il problema si sposta dalla “scuola” alla persona che la segue o che la rappresenta: io credo nel genio umano e nel primato della responsabilità individuale.

Secondariamente, in fine dei conti, l’ansia di questa legittimazione credo sia del tutto infondata: inutile quindi cercare (o inventarsi) una legittimità di cui non solo non si dovrebbe sentire il bisogno, ma che non può essere assegnata ad alcuno.

Certo, se una scuola, quindi una “tradizione”, esiste da molto tempo probabilmente ha dei contenuti di tutto rispetto (che tuttavia dovranno essere applicati a rinnovati alla luce delle esigenze attuali). Del resto è anche vero che molte scuole tale continuità l’hanno vinta in guerra. Inoltre è da considerare che l’esoterismo è fatto di cose non note e non pubbliche, quindi non sempre storicamente accertabili, quindi ciò che è storicamente accertato non è detto che corrisponda a ciò che stiamo cercando.

È vero che la linearità “maestro-discepolo” può avere la sua importanza nel mantenimento di una certa integrità di contenuto e di metodo.

Eppure stiamo pur sempre parlando di cosa? Di una conoscenza tramandata da più o meno tempo, più o meno diffusa e rinnovata nel tempo e nello spazio, più o meno antica o moderna (in questo caso la diffidenza aumenta e quindi l’ansia di legittimarsi aumenta proporzionalmente) riconducibile a una persona (o ad un gruppo di persone) che in un lontano o recente passato – ricordiamoci che stiamo parlando di contenuti spirituali – hanno o pretendono di aver… parlato con Dio. In un modo o nell’altro. Chi tramite ispirazione, chi scrivendo sotto dettatura, chi ricevendo un insegnamento orale o scritto da parte di qualcuno che era – o si vuole esser stato - Dio, incarnato o meno.

Capite bene che si dovrebbe ritenere legittima la scuola che ha una maestro, ovvero un capo-scuola (meglio se antico), al quale si assegna, per fede, natura divina oppure che è stato il protagonista di una rivelazione divina, credendo a questo fatto, ancora una volta, per fede. Da qui il passa parola maestro-allievo, i libri “sacri” e quant’altro fonda una cosiddetta “via vera”. Quella “via vera” riterrà che le altre vie (diverse e/o successive) non siano vere: eppure ognuna di esse afferma di fondarsi su una rivelazione sovrannaturale, spesso può vantare altrettanto spessore storico, oppure non essere così nota proprio perché “esoterica”, oppure ancora, se recente, non possiamo ora stabilire se il futuro non le riservi un grande successo. Quindi di cosa stiamo parlando? Del nulla: o meglio, di una rivelazione che vale per tutti o che non vale per nessuno, dato che stiamo parlando dell’aver incontrato Dio. Non noi: ma uno tanto tempo fa, il quale, con i suoi argomenti e libri e aforismi e tecniche ci piace molto.

Se una via è vera, allora possono esserlo tutte, oppure non lo è nessuna e allora stiamo più semplicemente parlando di possibilità, di ipotesi di lavoro fondate sul genio umano e sulla serena responsabilità individuale di chi cerca con intelligenza, onestà, impegno e competenza e che non dovrebbe avere tutto questo bisogno di avere Dio alle spalle: perché tutta questa necessità di affermarsi in quanto “vero allievo” (o maestro) di una “vera via” e magari inventarsi storie e miti – rischiando davvero il ridicolo – nel momento in cui si dovrebbe serenamente cavalcare l’onda di una bellissima intuizione originale e personale?

Badate bene: una via “che valga la pena” deve essere vissuta con impegno, intelligenza, ovvero studiando, praticando, facendo tesoro degli insegnamenti di chi prima di noi si è dato un gran da fare, e mettendoci del proprio: costruendo il proprio sentiero profondo, interiore, che contribuirà al bene di quella Verità che non ha vie né nomi né copyright. E se l’allusione alla primeva rivelazione divina per me vale zero (cioè, come ipotesi di partenza, vale per tutte, vecchie e nuove vie, o non vale per nessuna), allo stesso modo la durata storica e il successo sociale non sono per me determinanti, così come non lo sono l’esibizione di miracoli, visioni, poteri e facoltà sovrannaturali, che tanto hanno a che fare con una mondanità aumentata (proprio come oggi si parla di “realtà aumentata” nell’ambito della moderna informatica) piuttosto che con l’evoluzione della coscienza spirituale. Bolle (e balle) di Ego senza senso.

Inutile quindi vivere nell’ansia di una legittimità, o farne motivo di ostentazione qualora si presumesse di averla: non è reale! E poi, per dirla tutta, si troverà sempre qualcuno più tradizionale di noi pronto a bollarci se considerate che per un purista dei Veda, che già mal sopporta Shankara, Patanjali è New-Age: i Tantra spazzatura. Eppure tutti hanno parlato con Dio. E magari ci ho parlato anch’io prima di iniziare la mia divulgazione. Perché Vyasadeva sì e io no? Perché è più antico? Ma Dio non è atemporale? Non potrebbe parlare con me come con lui? Perché i Veda hanno diecimila anni di successo? E chi vi dice che Dorofatti non avrà quindicimila anni di successo? E poi, in fondo, come è messa oggi l’umanità, pur con tutte queste “vie vere” rivelate da Dio? Non è che ci sia quel gran risultato! No… vedete che andiamo nel ridicolo? Lasciate perdere: è un discorso che non ha senso.

Pensate ad essere autentici voi e renderete vera e autentica la via che avete per voi scelto, almeno in questo momento. Non criticate gli altri: ben intenso, sempre che ci sia un minimo di verificata onestà, umiltà, intelligenza, impegno, competenza… Non sto ovviamente legittimando cialtroni e buffoni, ma quella dell’io e la mia scuola siamo più autentici di te oppure del caspita devo inventarmi un mito antico se no non sono nessuno è un problema che dovete proprio lasciar cadere. A meno che non dobbiate vendere! A parte gli scherzi: non siete grandi yogi o grandi ricercatori spirituali, né diventerete grandi saggi perché avete, credete di avere, o vi siete inventati di avere la rivelazione di Dio alle spalle, sia essa o meno reale, o sia questo sensato anche solo come concetto, no: siete persone, come chiunque, e state percorrendo un cammino che sentite dentro di voi, sia esso antico di millenni o il frutto di un’intuizione che questa mattina vi ha colto mentre vi stavate lavando i denti: sa sarete onesti, se vi impegnerete, se studierete e sperimenterete con sincerità e devozione verso la causa spirituale, naturalmente anche attraverso una via ai miti e ai simboli della quale deciderete di credere, ma che saprete in voi rinnovare, allora sarete sul cammino. Dio vi ha parlato. Questo è il modo per saperlo: nessun altro te lo potrà dire o certificare, se non, se mai, coloro ai quali, in virtù del tuo cammino, avrai dato amore.

mercoledì 7 dicembre 2016

Libertà è Dissoluzione




La morte ci fa paura. Ma di cosa abbiamo paura esattamente? Forse non della morte in sé, piuttosto della sofferenza, o dell’idea della perdita: di perdere noi stessi, i nostri cari, la nostra vita, il nostro corpo, le nostre cose. E abbiamo paura di quel tuffo nel vuoto, nel buio, nel nulla, nonostante le consolazioni delle tante religioni le quali, ognuno a modo suo, ci raccontano di una persistenza, di una vita dopo la vita, di un paradiso, oppure di una reincarnazione e così via.

Nelle mie conferenze mi avrete sentito parlare della nostra “dispersione” dopo la morte nel momento in cui non siamo riusciti, in vita, ad edificare un senso di noi stessi, un’identità trascendente, che sappia proiettarsi oltre la vita fisica: se non costruiamo un’anima integra, dopo la morte veniamo dispersi, proprio come dispersi e sfilacciati siamo, dentro e fuori di noi, durante la vita materiale.

L’obbiettivo della ricerca spirituale, ovvero dell’edificazione di un’ Anima, della nostra anima individuale, è anche quello di costruire un ponte che ci conduca oltre la morte, in una continuità di vita ove la nostra identità permane e prosegue il suo viaggio evolutivo o, ancora meglio, risolutivo nella nostra reintegrazione con l’Assoluto: essere goccia e mare.

Qui però insorge spesso un equivoco che voglio ora definitivamente fugare.

Sì perché sembra quasi che l’obbiettivo sia il permanere, ovvero la continuità della nostra esistenza e coscienza individuale. Sembra che la “conservazione” sia lo scopo. Mentre, invece, è esattamente il contrario! E ora mi spiego.

La nostra anima, o coscienza in divenire, individuale e identificata, non ha la scopo di permanere in quanto tale, anzi: essa deve e vuole definitivamente dissolversi nell’abbraccio con l’Assoluto al quale fare ritorno, ricca dei suoi tesori, ovvero delle esperienze vissute in termini di sentimenti, emozioni, sapori, in definitiva, di Amore.

Deve e vuole dissolversi: non deve permanere. Non può permanere!

Ecco che non dobbiamo confondere il problema della continua, reiterata ed inconcludente dispersione post-mortem – causa dell’eterno ritorno sulla ruota del Samsara – con la dissoluzione cui invece tendiamo in quanto ritorno e unione con l’Assoluto, con l’Essere che è Tutto e Nulla, nel quale fonderci in un’indicibile Totalità, appunto dissolvendoci: non c’è alcuna goccia. Non c’è alcun mare.

Pertanto il concetto di dispersione, senz’altro problematico, non va confuso con quello della dissoluzione che, al contrario, risulta il Fine dei nostri fantastici viaggi nei mondi del possibile. E il Nirvana, I’Illuminazione in quanto affermazione della propria Totalità come Essere, è l’ultimo ostacolo che va tolto di mezzo per perseguire quella fusione che nello Zen, più propriamente, chiamano Satori.

In verità, l’ostacolo al Satori è proprio quella conservazione provocata dalla dispersione continua e inconcludente che di vita in vita lacera la nostra anima inconsapevole, provocando continui e indefiniti ritorni. La conservazione è provocata dalla dispersione ed è l’opposto di quella dissoluzione risolutiva che costituisce, altresì, quella Moksa che è definitiva Liberazione nell’indicibilità.

La dispersione è sinonimo dunque di conservazione inconsapevole. Ne risulta, pertanto, che quella “continuità identitaria” di cui parlo come obbiettivo di continuità esistenziale oltre la morte del corpo, quando indico nell’edificazione della propria Anima immortale il fine del “lavoro” spirituale, è soltanto un espediente che ci permette di acquisire un senso più ampio della vita, di noi stessi, della realtà, ma non deve trasformarsi nell’ennesima trappola dell’attaccamento alla permanenza, sia pure essa nella continuità di una vita superiore, ma pur sempre nel limite dell’individualità che va trascesa in funzione della permanenza, se mai, di un “sapore”: è il distillato del vissuto che se mai si proietta oltre i confini del vivente, annullandosi – e quindi realizzandosi – nell’Essere Assoluto, senza nomi.

La continuità identitaria post-mortem, quel filo (antahkarana) che inanella il divenire delle nostre esperienze (le quali, in virtù dell’anima, si proiettano oltre i veli della materia, dello spazio e del tempo), rimane come necessaria affermazione consapevole della propria Natura trascendente, ma, in virtù proprio di tale consapevolezza, si risolve nel suo opposto, ovvero nella dissoluzione (liberazione, impermanenza) che è libertà nella e della Coscienza. Rimane solo l’Amore: la vita ha senso in quanto opportunità di Amore, di Gioia, di Bellezza nella relazione. In altri termini, ciò che “deve restare” è la gioia della vita, ma non la vita. Capite bene che la “continuità di coscienza” di cui parlavo è sinonimo di dissoluzione, non di conservazione! Mentre la dispersione tipica dei fenomeni della reincarnazione è, quasi paradossalmente, sinonimo di conservazione. Ma di una conservazione inconsapevole, inconcludente, irreale.

Essere attaccati alla vita (e respingere la morte come fine, termine, della vita) è un problema che vale sia per questa vita materiale ma, attenzione, anche nei confronti di qualsiasi altra forma di attaccamento alla vita, sia essa vita superiore: è solo un estendere il campo della propria volontà di permanenza, ma il risultato non cambia: è ancora attaccamento al mezzo che impedisce la consapevolezza e la realizzazione del fine.

Il problema a questo punto è, direi, didattico: perché se vi dicessi di puntare alla dissoluzione, probabilmente vi disperdereste (conservandovi). Nel contempo se vi dicessi di puntare alla conservazione e in voi nascesse l’idea dell’Illuminazione come permanenza della vostra coscienza oltre ogni limite, pur fusa come goccia nel mare, non avreste capito.

Al Nirvana, all’Illuminazione in quanto pienezza del Sé (sia pur esso il Sé Superiore realizzato), alla continuità consapevole della vostra identità cosciente che è goccia e mare, dovete solo far finta di crederci: per ingannare il demone della dispersione. Ma sapete bene che quella consapevolezza di voi stessi, integra, luminosa e permanente oltre ogni velo, non è che meravigliosa dissoluzione: solo un sapore rimane. Senza riferimenti. Senza nomi. Solo l’Amore rimane, fuso nell’Essere che tutto è, che nulla è, la cui Coscienza di sé sta nella fragranza di infiniti vissuti, di per se stessi senza importanza, continuamente rinnovantisi in una danza senza mèta, per il puro piacere di danzare. Ecco ancora una volta l’Assoluto non come fine ma come stato di coscienza, qui e ora, ovunque e sempre. Da nessuna parte e mai.

Va da sé, a questo punto, che la vita ha senso, cioè è vera, autentica, giusta e ben vissuta, solo in quanto (e se) espressione di relazioni attraverso le quali celebrarla creativamente come gioia, bellezza, amore e libertà. Ecco il segreto della vita: un fluire d’amore senza rivendicazioni, senza attaccamento neppure verso la realizzazione più totalizzante e trascendente. Senza appropriazione alcuna.

Permettetemi una chiosa finale: qualunque via autentica vi condurrà all’abbandonare ogni pretesa di vita eterna, in quanto né vita né morte ci appartengono. Vi insegnerà invece al lasciar cadere ogni attaccamento, ogni finalità propria, ogni volontà di affermazione imperitura, svelandovi la bellezza dell’Assoluto impersonale. Vi insegnerà che quello del perdersi, in un certo senso, è un davvero falso problema. Non la stessa cosa vi prometteranno le vie in autentiche e le religioni: alimenteranno la paura della perdita e dello smarrimento, nutriranno in voi la paura della morte e della fine, vi prometteranno una salvezza. Attenzione: non una liberazione, ma una salvezza. Salvezza dalla morte, promessa di vita eterna, raggiungimento di un paradiso assoluto in cui vivere felici, che però non è mai qui: è sempre al di là. Dopo. Se ce lo meriteremo. Se obbediremo. Coloro che promettono l’illuminazione, il paradiso, la vita eterna, ma anche chi promette l’assoluto come fine e termine ultimo al quale giungere per riposarsi finalmente, nella beatitudine della contemplazione di “Dio”, vi stanno indicando una strada illusoria per legarvi stretti al loro guru, alla loro religione e alla loro chiesa nell’al di qua, e ai loro voraci dèi nell’al di là.

Abbandonate dunque l’idea della mèta definitiva: già tutto è (contemporaneamente uno, nessuno e ognuno) eppure non è; per quanto ci riguarda è oppure non è. Abbandonate il timore della morte, della fine e della mancanza, perché il tutto che siete, solo se a nulla vi attaccate, non può temere di avere o di non avere, ma neppure di essere o di non essere.